di Epheso
La pensione pubblica in Italia: uno scenario sempre più incerto e complesso
Un tempo non troppo lontano, sino a fine ottocento, la tutela degli ex-lavoratori non più in grado, per raggiunti limiti di età, di produrre reddito e quindi di sostenersi con la propria attività era demandato esclusivamente all’iniziativa del singolo, o meglio della famiglia, nucleo fondamentale di tutela per il patto inter-generazionale. Non esisteva insomma una istituzione centralizzata che si occupasse di previdenza sociale, che garantisse cioè obbligatoriamente la tutela del singolo lavoratore, una volta sopraggiunta l’incapacità di produrre reddito.
Il progressivo passaggio in Italia a una struttura prevalentemente rurale e contadina, in cui i meccanismi solidali di tutela si attivavano con maggiore facilità, a una nuova struttura basata sulla rivoluzione industriale ha imposto definitivamente all’attenzione dello Stato la necessità di prevedere (da qui la derivazione del termine previdenza) un’opportuna tutela per la gran parte dei lavoratori italiani. Così nacque nel 1898, con la fondazione della "Cassa nazionale di previdenza per l'invalidità e la vecchiaia degli operai”, la prima forma di previdenza, seppur inizialmente facoltativa, in Italia. L'iscrizione a tale istituto diventa obbligatoria solo nel 1919, anno in cui l'istituto cambia nome in "Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali". Nel 1933 la CNAS diventerà l’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale, INPS. La pensione sociale viene introdotta solo nel 1969.
In riferimento a questo cambiamento, che ha interessato non solo l’Italia, occorre rilevare come il primo embrione di gestione pensionistica pubblica nacque in Germania, dove l’allora primo ministro prussiano Otto Von Bismarck nel 1889 promulgò la prima legge che garantiva la pensione ai lavoratori dipendenti e stabilì, appunto, l'età limite per usufruire di questo diritto. Da quel momento molti paesi industrializzati dell'Europa e gli Stati Uniti presero spunto dalle normative della Germania quando si trattò di regolamentare, sotto questo aspetto, il mondo del lavoro.
A titolo di evidenza storica è interessante osservare come tale istituto ha modificato sostanzialmente, da allora, la sua valenza negli anni e anche, per certi versi, la sua fondatezza di reale necessità. In realtà, come è facile immaginare, non ci sono prove scientifiche che l'essere umano al compimento dell'età pensionabile non è più abile al lavoro e i dati statistici sullo stato di salute degli anziani non fanno che smentire questi preconcetti. Anche una semplice analisi storica evidenzia, come anche pocanzi in parte abbiamo già accennato, che nelle società preindustriali (dove l'aspettativa di vita era ben inferiore a quella dei nostri giorni) la persona anziana permaneva a lungo nel mondo del lavoro, almeno finché il suo fisico sopportava l'attività lavorativa, ma in media molto più a lungo di quanto accade oggi. Non solo, il meccanismo di solidarietà inter-generazionale faceva il resto, laddove questa capacità veniva minata irrimediabilmente. Se è vero che molte aziende sono propense a uno svecchiamento della forza lavoro e che il tasso di disoccupazione è sempre molto alto, l'invecchiamento complessivo della popolazione, che ha assunto carattere significativo dalla metà del secolo scorso, fa sì che per uno stato sociale risulti antieconomico assorbire una sempre maggiore fetta della popolazione che risulta improduttiva. È a tal proposito che molti istituti previdenziali richiedono un numero di anni di contribuzione per concedere i benefici pensionistici al di sotto del quale il lavoratore non avrà la pensione minima. Ed è altrettanto evidente lo scenario di sviluppo futuro che obbligherà alla crescita sostanziale e continua di questi requisiti e un contestuale abbassamento del livello di entità della pensione attesa.
Tutti i moderni sistemi di previdenza pubblica si fondano sul cosiddetto sistema di gestione a ripartizione, che non è altro che un patto di solidarietà fra generazioni, nel quale i contributi prelevati dai lavoratori vengono destinati al pagamento di chi attualmente è in pensione. Uno schema simile presuppone una crescita demografica esponenziale, situazione ormai non più vera e attuale da tempo. Il rapporto tra numero di pensionati e occupati è di 686 beneficiari ogni 1.000 lavoratori (era 757 nel 2000). Se si considerano solo i titolari di prestazioni IVS, il rapporto tra pensionati che hanno versato i contributi e i lavoratori che li versano scende a 602 ogni 1.000 lavoratori. Il rapporto è diminuito di quasi 6 punti percentuali nei sei anni successivi alla riforma del sistema pensionistico del 2012, mentre nei precedenti dodici anni si era ridotto di soli 2 punti1. Ecco perché in Italia come in tutti i paesi più industrializzati, sussiste la necessità continua di rivedere i meccanismi che sottendono al calcolo e all’erogazione delle pensioni di previdenza pubblica per consentire una gestione deficit-free di questa posta di bilancio, ormai per molti diventata un punto importante (in Italia siamo intorno al 17% del PIL) per la quadratura dei bilanci pubblici.
Le riforme Dini e Treu nel 1995, Berlusconi e Maroni nel 2004, quella del ministro Sacconi del giugno 2010 e da ultimo la tanto discussa del governo Monti-Fornero del 2012 si ponevano l'obiettivo di garantire l'equilibrio finanziario e la pensione alle giovani generazioni, tramite due strumenti sostanziali: l'innalzamento dell'età pensionabile e la revisione decennale dei coefficienti, unitamente a una crescita delle pensioni che doveva restare al di sotto dell'aumento del PIL. Di fatto, cercando di semplificare per meglio comprendere i tratti comuni e distintivi delle riforme previdenziali, si può classificare le leve a disposizione del legislatore, in tre tipologie principali che agiscono su elementi distinti del sistema:
1. l'aliquota contributiva media applicata ai redditi dei lavoratori attivi;
2. la modalità di calcolo della pensione media, in rapporto al reddito medio dei lavoratori;
3. il numero delle pensioni che si intende concedere rispetto al numero complessivo dei lavoratori.
Prima leva: l'intervento più semplice è quello sui livelli contributivi, se la spesa pensionistica cresce, la maggiorazione viene coperta dell'aumento dei contributi prelevato dai lavoratori attivi. Interventi di questa natura si trovano in quasi tutte le riforme degli ultimi decenni per via dell'immediatezza del provvedimento, ma lo spazio per ulteriori aumenti si riduce progressivamente da riforma a riforma e attualmente è alquanto limitato visto i livelli attuali contributivi che ampiamente superano un quarto del costo del lavoro. Il risultato che si ottiene da questi interventi è spesso inefficace in quanto deprime direttamente la produttività dell'economia, avviando il circolo vizioso con riduzione delle opportunità di lavoro e pertanto va proprio a minare la base impositiva dell'aliquota maggiorata.
Seconda leva: la riduzione del tasso di sostituzione delle pensioni, adottando modalità di conteggio meno remunerative della rata di pensione a parità di contribuzione, agisce sul versante delle uscite. La Riforma del 1995, con l'introduzione del nuovo sistema di calcolo contributivo, poi applicato a tutti i lavoratori con la Riforma Fornero, è l'espressione più evidente di questo impiego. Solitamente questo tipo di intervento concede un risparmio non particolarmente elevato nel breve termine, ma di natura strutturale, cioè un risparmio che si consolida e cresce costantemente negli anni. La modifica dei criteri di calcolo delle pensioni rispetta solitamente due vincoli: non comporta mai ricalcoli o ritocchi delle pensioni per i soggetti già pensionati; rispetta generalmente i diritti acquisiti (le modalità di calcolo ante riforma) per le anzianità maturate fino alla data di introduzione dei nuovi provvedimenti. Ma è spesso politicamente difficile da attuare, in particolare sulle pensioni già in pagamento.
Terza leva: la riduzione del numero delle nuove pensioni concesse elevando i requisiti minimi di accesso, è la formula più incisiva perché contemporaneamente posticipa la spesa riducendo il numero di pensioni e incrementa le entrate contributive mantenendo i lavoratori più a lungo al lavoro. In questa categoria rientrano quasi tutti gli interventi più importanti delle ultime riforme, come l'adeguamento costante dei requisiti minimi di pensione alla effettiva speranza di vita della popolazione.
Ai fini della sostenibilità del sistema, l'intervento di maggiore rilievo è stato l'introduzione del sistema di calcolo contributivo nell'ormai lontano 1996. Questo tipo di calcolo, che collega la misura della prestazione pensionistica ai contributi effettivamente versati, all'andamento economico e alle aspettative demografiche, è una garanzia perché elimina molte fonti di instabilità economica del sistema previdenziale.
Va chiaramente specificato che il passaggio dal sistema di calcolo retributivo a quello contributivo non modifica il sistema di finanziamento della previdenza pubblica. Il cosiddetto "calcolo contributivo" solo apparentemente utilizza parametri della capitalizzazione, in realtà i contributi incassati vengono e verranno immediatamente utilizzati per pagare le pensioni in essere. Pertanto, come di solito, se con il passare del tempo il potenziale contributivo si assottiglierà, la proporzione che collega il monte dei contributi versati ai trattamenti futuri verrà modificata in modo tale da permettere ai lavoratori di domani di pagare, con i loro contributi, pensioni più basse ai lavoratori di oggi.
Purtroppo sono finiti i tempi del sistema di calcolo retributivo, in cui il calcolo della pensione garantiva una copertura vicina all’80% del reddito, ma soprattutto una buona dose di certezza sulle prestazioni attese e sull’età di entrata in pensione. L’80% dell’ultima retribuzione era quasi una certezza per gran parte dei lavoratori italiani. Oggi il calcolo della pensione contributivo è influenzato da fattori plurimi e articolati che rendono sempre più incerte non solo le prestazioni attese, aspetto scontato, ma anche i requisiti di pensionamento atteso, aspetto molto meno scontato. La nostra pensione non è più solo correlata all’andamento dell’azienda Italia (il rendimento del sistema di calcolo contributivo è pari alla media quinquennale di crescita del prodotto interno lordo) o del nostro reddito, ma anche alla variazione della speranza di vita attesa, che influenza non solo il coefficiente di conversione in rendita del montante contributivo maturato, ma anche l’età in cui si può percepire la pensione.
Concludendo risulta evidente e chiaro come gli interventi hanno di fatto impattato in maniera alquanto significativa sulla prestazione pensionistica attesa. All’incertezza e fluttuazione legata intrinsecamente al modello di calcolo contributivo e ai suoi parametri di riferimento (rischio economico e demografico) si unisce ora un’ulteriore variabilità, quella dell’età attesa di pensione. Tutto ciò rende alquanto incerta la stima delle prestazioni attese, basata ormai su un numero di variabili interconnesse tutt’altro che trascurabile. Sempre maggiore importanza rivestono quindi gli strumenti di simulazione del calcolo pensionistico che mostrano in maniera inequivocabile i potenziali impatti degli interventi normativi, ormai impossibili da stimare senza un adeguato supporto elaborativo complesso, articolato e aggiornato.
1 Fonte Istat - CONDIZIONI DI VITA DEI PENSIONATI 17 febbraio 2021